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Definizione, caratteristiche e scopi comunicativi di un’attività ancora ampiamente mistificata: il copywriter.

L’attività di massa e l’attività consapevole

Com’è noto, scrivere è ormai un’abilità comune: durante l’arco della giornata, tutti più o meno leggiamo e produciamo testi in forma scritta, non foss’altro che per la gestione delle email di lavoro e per i botta e risposta su WhatsApp con familiari, amici e colleghi.

È questa una grande conquista del processo di alfabetizzazione, cui hanno per la maggior parte contribuito l’obbligo scolastico e l’avvento dei mass media, oggi ampiamente coadiuvati dalla diffusione dei sistemi di comunicazione digitale. Un fenomeno a dire il vero piuttosto recente nella storia dell’uomo e soggetto oggi peraltro al preoccupante dietro front che l’analfabetismo di ritorno può rappresentare.

Ma esiste in realtà di questi tempi anche una minaccia più subdola, ossia la convinzione che il saper maneggiare la lingua sia sufficiente a elaborare testi di diversa natura e funzione, quindi destinati a diversi tipi di audience. Ma saper preparare un piatto di pasta non significa che quel piatto sia per forza appetitoso, genuino o più facilmente digeribile: per arrivare a un buon risultato finale (potrei dire “professionale”), occorre conoscere le caratteristiche degli ingredienti, sapere come combinarli in una ricetta bilanciata, quali strumenti e processi di cottura utilizzare. Una consapevolezza che deriva dall’insieme di inclinazione, basi teoriche ed esercizi sul campo che creano esperienza.

Tra il dire e il fare… C’è di mezzo il copy

Vale lo stesso per l’attività di scrittura e quindi di copywriting. Generalmente definito in modo vago e di sicuro non esaustivo come “redattore di testi pubblicitari” o “colui che scrive per vendere”, il copywriter è l’autore dei contenuti testuali che compongono il materiale comunicativo rivolto al target o destinatario individuato dalla strategia di marketing. Lavora assieme all’art director in agenzia o al responsabile della comunicazione e dei contenuti visual in azienda.

Dal barattolo di caffè che apriamo al mattino, ai cartelloni lungo la strada per andare al lavoro, agli spot mandati in radio, alle pagine pubblicitarie su una rivista: tutto ha alla base un’attività più o meno marcata di copywriting (nei casi citati, utile alla comunicazione off-line).

L’efficacia di tali operazioni in termini di persuasione diretta alla vendita non è certo facilmente misurabile, ma può essere piuttosto valutata in termini di funzionalità. In base a quali criteri? Lo spiega bene Annamaria Testa in “La parola immaginata”:

  • congruenza con l’immagine del prodotto (esistente o desiderata);
  • comprensibilità per il target;
  • capacità di suscitare interesse e lo stimolo ad approfondire;
  • capacità di attrarre e convincere;
  • capacità di coinvolgere sotto il profilo emozionale, utilitaristico, estetico e ludico.

Ancor più che per altre tipologie di testi scritti, è evidente che quello scritto dal copywriter è tanto più funzionale quanto più pone al centro il pubblico già consolidato o potenziale da raggiungere.

Le funzioni del linguaggio pubblicitario

Il destinatario è del resto una delle componenti essenziali dello schema comunicativo basilare, assieme all’emittente, il messaggio, il contesto, il codice del messaggio e il canale per mezzo del quale viene trasferito. Ciò che cambia è lo scopo per cui la comunicazione viene di volta in volta attivata: secondo il linguista Roman Jakobson esistono sei diverse funzioni del linguaggio, in base all’elemento del processo comunicativo su cui si focalizza l’attenzione. Raramente però un atto linguistico assolve un’unica funzione: si tratta piuttosto di riconoscerne l’ordine gerarchico all’interno dello stesso messaggio.

In questo il linguaggio pubblicitario e quindi del copywriting è davvero un maestro: solitamente non è mai immediato quanto un articolo di giornale, un libretto d’istruzioni o un “Ciao!”.

Si potrebbe in particolare attribuirgli una funzione di tipo:

  • referenziale o informativo, in quanto le parole della pubblicità devono per forza di cose promuovere le caratteristiche del prodotto e il suo marchio (“Altissima. Purissima. Levissima.”, “Trony, non ci sono paragoni”);
  • conativo o persuasivo, per indurre il destinatario a compiere un’azione attraverso l’uso dell’imperativo (“Fate l’amore con il sapore”, “Passa a Vodafone”);
  • espressivo o emotivo, che pone in primo piano il sentimento dell’emittente, implicitamente indicato come l’emozione positiva che il prodotto suscita (“I’m lovin’ it”, “Ho tutto. Ho Clio”);
  • fàtico o di contatto, per stabilire un contatto col destinatario captandone l’attenzione (Cin Cin… Cinzano).

La sperimentazione linguistica

Ma che dire della funzione poetica-estetica, che si focalizza sulla forma del messaggio? Pay off e claim pubblicitari “giocano” con la lingua, utilizzando ad esempio assonanze, rime, onomatopee, climax, sinestesie (associazioni tra parole che indicano sfere sensoriali diverse), o creando neologismi.

Già il linguista Francesco Sabatini nel 1967 (in pieno boom economico) afferma che in tali messaggi «la ricerca di massima espressività e d’un motivo di richiamo si traduce in una serie di più o meno vistose deformazioni o neoformazioni linguistiche» e che «i creatori di brani pubblicitari guardano […] attentamente alla letteratura contemporanea», tanto che i confini tra arte e messaggio pubblicitario «si vanno sfumando e che ormai stimoli e motivi si trasmettono rapidamente nei due sensi». Nel 1972 è Umberto Eco a riconoscere che «insieme alla componente emotiva quella estetica è la più importante. L’uso della figura retorica ha innanzitutto finalità estetiche. Vige nella pubblicità il precetto barocco per cui “è del poeta il fin la meraviglia”» (citando Gianbattista Marino).

La persuasione, ovvero l’arte di far scegliere liberamente

In uno stesso testo scritto dal copywriter, specialmente se tanto breve da dover condensare un messaggio convincente in poche parole, spesso convivono quindi due o più di queste funzioni linguistiche.

Nonostante quella persuasiva possa sembrare preponderante e il fine ultimo di ogni messaggio pubblicitario, oggi si registra in realtà una controtendenza: limitare l’approccio imperativo a favore di un più neutro tono informativo sui reali vantaggi del prodotto. Per citare ancora Annamaria Testa, «il consumatore probabilmente si rivolge più volentieri a quei prodotti che gli offrono il piacere di scegliere, piuttosto che a quelli che gli impongono l’obbligo di comprare».

Questo diventa tanto più vero alla luce della rivoluzione comunicativa causata dall’avvento della rete e della tecnologia digitale, che hanno favorito l’accesso di fasce sempre più ampie di potenziali acquirenti a una quantità pressoché infinita di dati e annunci pubblicitari, innescando da una parte l’aumento del livello di consapevolezza e della possibilità di esprimere in prima persona opinioni e giudizi sul prodotto, dall’altra lo sviluppo di un atteggiamento attivo di ricerca delle informazioni (contrapposto a quello passivo di ricezione del messaggio) in base a cui effettuare la scelta.

Ma questo merita un approfondimento a parte.

 

Articolo pubblicato su LinkedIn Pulse.